Blow Up

Un progetto di Ariel Soulé con la partecipazione di Ingrid Strain – Almach Art Gallery, Milano

RIVELAZIONI DI UNA REALTÀ INVISIBILE di Luca Temolo Dall’Igna

Nella tradizionale tecnica fotografica osservando in trasparenza un negativo si vede un’immagine quasi irriconoscibile e rovesciata che crea un particolare effetto di mistero.

Sviluppando il positivo, tra gli acidi e la superficie della carta sensibile inizia ad emergere una forma che lentamente appare, tenendoci col fiato sospeso fino alla completa rivelazione. La chimica diventa quindi alchimia, portando alla vita, non solo ciò che il negativo conteneva, ma soprattutto l’idea dalla quale si era partiti, andando oltre la superficie.

Questo è lo spunto che dal libro di Julio Cortázar ispirò Michelangelo Antonioni nel suo film del 1966, Blow Up.

Ariel Soulé ne riprende il titolo, ma se ne separa immediatamente per poter esprimere in piena libertà il suo lavoro basato sul concetto che quasi mai la

Ecco che qui si inserisce l’idea che sta alla base del progetto: per portare l’opera d’arte più vicina allo spettatore, non ha utilizzato complesse metafore o sviluppi testuali di concetti a volte difficili da comprendere. Ha coinvolto un altro artista, la fotografa Ingrid Strain, spiegandole uno per uno i propri dipinti e chiedendole di realizzare delle fotografie che ne rappresentassero l’immagine reale, la stampa positiva.

Questo è il Blow Up di Ariel Soulé, un lavoro dove la fotografia svela il dipinto, portando nel mondo della realtà visibile quello della realtà non-visibile con lo stesso effetto di magico stupore dello sviluppo della pellicola negativa.

L’artista però non ci racconta tutto. Tiene per sé l’essenza, lasciando che alcune immagini e concetti dei suoi dipinti restino velati, perché la fotografia porta a galla ciò che è in superficie, aprendoci la porta per entrare, ma sta comunque a noi impegnarci a comprendere il vero significato che le tele ci vogliono comunicare. Perchè in fondo le opere d’arte non vanno “viste”, ma ascoltate, affinché ci trasportino nel magico mondo del “non visibile”.

NONOBSTANT… ARIEL SOULE di Gérard-Georges Lemaire

Mi trovo adesso nell’appartamento sotterraneo di Ariel Soulé. Mi sono seduto davanti ad un vecchio guéridon con un plateau in marmo. Si poteva credere di essere nel mitico Caffè Tortoni di Buenos Aires (…). Abbiamo parlato dell’Argentina e soprattutto della sua capitale. Mi è venuta un pizzico di nostalgia. (…).

Mi sono seduto su uno sgabello e l’ascolto con attenzione mentre mi spiega i principi generali della sua ricerca. È rimasto a metà cammino tra la figurazione e l’astrazione, con un leggero vantaggio per la prima. (…). Quello che ci parla è il tutto della sua opera, con l’insieme dei suoi elementi.  Comunque sia, nessuna di queste creazioni sono di una chiarezza ovvia, (…). Devo mettermi a risalire un po’ nel tempo per capire la fonte di questo atteggiamento per lo meno curioso. Durante gli anni Settanta, aveva scelto un linguaggio soprattutto astratto. Ma devo aggiungere che si tratta di un genere di astrazione impura, con delle forme annodate di cui ignoriamo qualche volta il significato preciso. Si tratterebbe di un oggetto o no ? Di una figura o no? Non c’è niente che possa ricordare un rapporto diretto al mondo reale. Nessun richiamo alla realtà salta agli occhi. Ma, qualche volta, il dubbio s’intromette. È ancora vero oggi, anche se il suo approccio è cambiato. Ma le «forme» hanno preso un’importanza manifesta. Delle «cose». oppure dell’”essere” s’impongono. No, niente che possa richiamare in modo trasparente una parte del reale. Ho, all’inizio, il sentimento che non ha fatto altro da parecchi anni che di rimodellare un’impostazione generale che ha esplorato da molto tempo con diversi modi.  Non ha fatto che cambiare spesso delle ascisse e delle coordinate che sono lo scheletro del suo pensiero.   Quando si osservano certi pittori, si nota questa strana ossessione di conservare un punto di riferimento dell’origine da loro percorso. Sembra essere il caso per Ariel Soulé. È il cordone ombelicale che lo rilega con la fonte battesimale della sua creazione. Si rinnova sempre, ma sempre conservando con cura gli assi principali dello spazio dove ama soggiornare.

(…). È ovvio che fa parte d’una nuova generazione di pittori una minoranza minimale che non tenta di passare dell’altra parte dello specchio ma che non prova nemmeno a rimanere ben al caldo nel concetto della «tradizione del nuovo», che ha ereditato delle avanguardie dell’inizio del novecento. Lui ha scelto di stare in una sorta di porte a`faux, dove possiamo vederlo e apprezzarlo, senza potere interpretarlo.   E poi, è questo il momento di chiedersi se è pienamente astratto oppure se ha avuto il desiderio di farci cadere in una trappola visuale? Non c’è nessuna domanda edipica, ma piuttosto qualche cosa che perturba la nostra visione della sua opera che vuole stare in parte silenziosa. Così, il nostro sguardo è perturbato come lo è la nostra comprensione. È ancora possibile che non ha voluto fare apparire questa situazione e qui rende tutto un po’ delicato per la nostra intelligenza?  Non ha nemmeno cercato di inventare un campo di manovra dove lo spettatore si perde, nel fare scaturire dal nulla un luogo mai conosciuto nella storia della pittura. Secondo me, si è accontentato di proporre allo sguardo una specie di enigma che non aspetta risposta. L’enigma è l’argomento della tela. Non c’è una soluzione classica in vista! Lo spazio nato dai suoi sogni e delle sue riflessioni è l’unico modo del suo viaggio nell’immaginario dell’arte sua.  Ha fatto in modo che le sue pennellate, che la disposizione di suoi piani di colori, che i suoi progetti descrivano un altro mondo che non può esistere solo quando decide di scoprire una parte della sua esistenza interiore. Tutto quanto è l’elaborazione di un genere di quadri che nascono e che rivelano nello stesso tempo una messa in scena dell’intervallo dove il conscio e l’inconscio s’incontrano per mormorare una storia che possiamo solo capire per intuizione. Les silhouette sono indecifrabili ma sono l’essenza dei suoi quadri che non possono essere diversi da questa formula estetica. (…). Una tela non riesce a fare valere un racconto (di fantasia, religioso, mitologico, storico, sentimentale, e così via) ma il suo proprio essere.  L’artista ci invita, come l’ha fatto Dante Alighieri con Virgilio, a viaggiare con lui in un vasto oceano degno di Lautréamont dove il discorso è ormai secondario e dove le apparecchiature della pittura fanno vedere dei posti del sogno o della meditazione d’un uomo che ha scelto di affrontare un duello con sé stesso nel segreto di uno studio.

Per me, (ma posso sbagliarmi) è la verità della sua arte che risiede nel suo carattere impuro e anche in questo confronto permanente sarebbe come se Soren Kierkegaard avesse scritto la sua filosofia all’immagine di un romanzo di Alessandro Dumas. Impuro, ma d’una forza inconfutabile!

Ariel Soulé

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