Logos Ricomposto

Palazzo Martinengo – Comune di Sondrio

L’altrove dell’arte, oggi, è l’arte.
Può ancora l’arte disintossicarci dalla nostra abitudine quotidiana ad aver a che fare, sempre e soltanto, con delle cose presenti posate davanti a noi? È ancora in suo potere infrangere la tendenza, imperante in tutta la civiltà occidentale da Platone in avanti, a parlare soltanto di qualcosa di oggettivo, di de-finito, di stabile, che se ne stia docile sotto il nostro sguardo?

Non è nemmeno necessario che la stabilità rimanga la condizione logistica di tutto ciò che è immobile: l’aspirazione dello statico, dell’inerte, del morto. Anche un terremoto, del tutto paradossalmente, può essere accostato come un evento “stabile”, per esempio qualora lo si inquadri in una prospettiva oggettiva, scientifica, analitica. E lo stesso si può dire di tutti gli eventi che, per definizione, sono in divenire, come la natura, la Storia, l’esistenza, ecc. Non solo le grandi catastrofi naturali, ma anche la guerra o la “pace”, nel loro frenetico susseguirsi o dileguare, si stabilizzano quando vengono docilmente ricondotte nel recinto del lógos.

Tutto ciò che si nomina nel discorso o in una conversazione tra vicini di casa, per una predisposizione del linguaggio fonetico, viene incasellato in una struttura di senso che finisce per contenerlo, incorniciarlo, in senso lato “tenerlo a bada”. La “struttura”, la “griglia”, la “casella”, lo “scaffale”, il “fondamento”, in senso metaforico, costituiscono le impalcature minime del nostro incontro con le cose, con l’Altro e persino con noi stessi.

Già, noi stessi: anche l’incontro con noi stessi, ammesso che ci sia qualcosa di stabile in noi stessi, sembra possibile in base all’entrata in gioco di quella struttura di stabilizzazione delle nostre oscillazioni esistenziali che continuiamo a chiamare per riflesso condizionato “il nostro Io”. (Il maiuscolo credo che, almeno qui, sia il mio tributo “inconscio” pagato alla formulazione psicoanalitica della questione dell’io. Tutto qui.)

Ma a noi oggi interessa, più che altro, allargare un buco.Ci occorre il prima possibile un “divaricatore ontologico” che ci permetta di dischiudere ben bene da ogni lato la faglia che da tempo si è inscritta nella stabilità del presente.

La “stabilità del presente”, dopo i pesanti crolli che la presenza del presente ha subito sul piano metafisico a séguito di una “certa morte di Dio” – non so perché ma provo uno strano imbarazzo nel sorprendermi a scrivere morte di Dio… – da tempo non viene più garantita dall’esercizio pedante del lógos filosofico istituzionale, accademico diciamo così. (Non è stato forse Heidegger a ricordarci da qualche parte che, nell’età della tecnica, la metafisica è stata resa superflua dal semplice fatto di trovarsi ben insediata alla radice stessa della tecnica?…)

La faglia ontologica inscritta nel presente non andrebbe confusa con uno dei suoi soliti virus apocalittici, non annuncia la sua estinzione. Essa potrebbe volerci dire che il presente non è tutto, o forse che non è la “cosa” che dovrebbe starci più a cuore, oggi come oggi. Tutto qui.

Perché la presenza del presente, il venirci incontro – nonostante tutto, voglio dire… – del mondo, delle cose, degli oggetti, degli altri, ecc., non è mai qualcosa che possa avvenire soltanto in forza di se stessa. Soltanto di se stessa?

Il presente si presenta soltanto perché “qualcosa”, nel frattempo, si è assentato. Qualcosa che, lasciando spazio al presente, lo rende presentabile.

Ecco, questo “qualcosa”, che a rigor di logica non è una “cosa” perché non è mai presente, non può essere avvicinato senza uno sguardo che ne rispetti il suo continuo assentarsi. Una sguardo su un altro (o un “altrove”) dalla presenza è lo sguardo simbolico che ci aspettiamo dall’arte.

Deve essere però un’arte che non si lasci sedurre dalla possibilità di sovraesporsi alla presenza, agli strumenti che garantiscono la presenza. Un arte che, possiamo scommetterci, si squaglia non appena le puntiamo addosso con troppa insistenza i nostri occhi, avidi di toccare, di palpare, di stringere tra le dita, di mettere in tasca o sulla mensola qualcosa che se ne stia lì, buono, in attesa che qualcos’altro lo sostituisca.

Fabio Botto

Ariel Soulé

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